La giornata inizia alle 5.58 quando il sempre affabile personale della Jadrolinja mi dà la sveglia sferrando tre cazzotti alla porta del mio tugurio.
Una stanza 1.5 x 2,5 con 4 letti a castello, senza armadi o attaccapanni, senza cesso, senza finestre e senza scaletta per i letti superiori. Per salire c’è giusto un predellino retrattile, vorrei proprio vedere col mare grosso.
Per accedere alla suite, la Jadrolinja si affida al fior fiore della tecnologia balcanica: una chiave in plastica con ‘sistema crittografico’ analogico (leggi ‘fori’) che fa tanto Stasi, KGB o roba ben piazzata al di là della cortina di ferro.
Tutta la notte le pareti hanno cigolato e ringhiato tra il sinistro e il minaccioso, fortuna i soliti tappi in cera. Aria condizionata sparata a mille, parzialmente modulabile tramite ghiera in metallo arrugginito che invece fa tanto tanto sommergibile guerra fredda.
Mood dimesso, espressioni robotiche e sguardi spenti, austerità più assoluta, menù scarnissimi solo ed esclusivamente in valuta croata: una botta di ex Jugoslavia dritta sui denti. E comunque a occhio e croce se non è la stessa nave che mi ha portato da bambino in Jugoslavia nel 1988, poco ci manca.
La bagnarola però arriva in perfetto orario nonostante un ritardo alla partenza di due ore, e io schizzo via sulla stupenda litoranea verso lo Sveti Jure, immerso in un quadro di azzurri e verdi accecanti. Tutto troppo bello: la strada che si inerpica alla vetta è chiusa per lavori e mi tocca fermarmi dopo qualche chilometro di tornanti sfiziosi in stile Corsica. Peccato, ma pare che domenica riapra, forse riesco a farci un salto al ritorno.
Punto sulla Bosnia e mi ritrovo tra quelle montagne severe che prima vedevo in lontananza. Non c’è anima viva, finisco in mezzo al nulla su una sterrata che poi si rivela chiusa: un tipo che maneggia sulla ruspa mi vede titubante e allora mi spiana un gradino proibitivo, facendomi capire a gesti che se continuo dopo un po’ ci sarà uno sbocco su una strada aperta. Eseguo a testa bassa sperando di non finire per terra, non si rifiuta la cortesia balcanica.
Dopo una generosa porzione di agnello, eccomi a Trebinje, vicino al confine col Montenegro. Ho dormito poco e male, ho fatto 300 km e mi voglio riposare: vagherò senza troppe mete. La cittadina è un gioielletto, con monasteri sparsi qua e là, un lungo fiume placido pieno di canoisti e papere, una Stari Grad (città vecchia) compattissima, godibilissima, popolata da uomini brutti e ragazze dalle forme generose in tiro.
Devo comunque aver fatto qualcosa di socialmente poco accettabile per i canoni bosniaci, tipo suonare le campane di quel monastero chiuso che sovrasta il centro, perché all’andata tutti mi salutavano e ora che sono di ritorno mi stanno guardando tutti male.
E allora ditelo che non si può fare un cazzo.
Daniele ERMES Galassi
Zaino in spalla, mani sul volante, casco in testa: vale tutto. Andale!