Esco dalla tetra CBT guesthouse dopo una colazione sbrigativa e punto verso il Tulpar lake. Sembra proprio che non mi possa sbagliare, devo tirare sostanzialmente dritto per 22/23 km verso quelle immense montagne innevate che risplendono nel primo sole. Confermo l’impressione di ieri sera: è come camminare in un lembo di Patagonia, con la dfferenza che siamo in un altipiano a 3000 metri.
Qualcuno potrebbe annoiarsi dopo un po’, io gongolo; anche perchè per 7 lunghe ore non incontro anima viva a parte un asino e qualche yak. Unica presenza umana un pastore in sella a una Suzuki 450 che sbuca da una duna erbosa, mi attacca un pretenzioso bottone in russo e scompare dietro la duna erbosa successiva.
Nella yurta sulle sponde del lago alle 18 la temperatura precipita (saremo sui 2-3 gradi). Mi seppellisco sotto le coperte accumulando calore e aspettando che accendano la stufetta, ma è veramente un freddo boia.
Nel dopo cena il tanto agognato fuoco salvifico (alimentato rigorosamante a sterco di vacca) si rivela un’arma a doppio taglio, perchè il termometro schizza verso valori sahariani. Mi sembra di squagliarmi e – complice l’aria rarefatta – la sensazione di soffocamento si fa insostenibile tanto che vorrei quasi scappare all’aperto in barba al polo Nord che furoreggia là fuori. Tampono spogliandomi di ogni strato termico.
Quando il fuoco si spegne il termometro vira di nuovo in picchiata: rivestizione con strati su strati, coperte pesanti come piombo e dita incrociate sperando che il calore accumulato sia sufficiente per arrivare all’alba.
In qualche modo lo è, alle 7 esco e mi aggrego a un giovane dentista siberiano e a sua moglie per arrivare al Traveller’s Pass (4150). Loro hanno a seguito una guida kirghisa allampanata e muta come un sasso che li scaricherà direttamente a Osh finita l’escursione, e la cosa strepitosa è che si dicono disponibili a portarmi con loro in città: niente nottata aggiuntiva nella yurta, né tanto meno al tetro CBT di Sary Mogol. Non mi pare vero.
Salire al Traveller’s Pass è facile fino a che non si raggiungono gli ultimi due chilometri, poi la faccenda diventa duretta perchè a ridosso dei 4000 ci si ineripica sul passo con una pendenza tutt’altro che dolce su terreno non sempre compatto. Ma è anche la parte più appagante: si cammina tra montagne striate di verde e rosso, fino a svalicare per incontrare il candore dei ghiacciai (che devo dire almeno qui reggono alla grande). Siamo a 4150 metri sul livello del mare, il Lenin Peak (7134) è ben visibile.
Durante l’ultimo chilometro siamo io, il dentista, la guida muta. La moglie del dentista si è inchiodata in un punto esposto – ha paura del vuoto, mi spiega il marito – ma lui di aspettarla manco a parlarne. Un uomo tutto di un pezzo, forgiato da chissà quante generazioni di purissimo rigore siberiano. Poi però lei urla che ha sete.
Lui mi guarda, si gira e muove verso di lei per portarle dell’acqua: forse questo rigore siberiano è tutta una vile messinscena. No, si ferma dopo pohi passi, lascia una bottiglietta per terra e le indica il posto. Troverai l’acqua qui, se ci arrivi.
Arriverà al passo una mezz’oretta dopo di noi, senza aver nulla da ridire, con un sorriso a trentadue denti solo parzialmente minato dall’orrendo apparecchio che suppongo le avrà piazzato in bocca il marito senza anestesia.
E sta a vedere che la Siberia è come Roma… mi piace, ma non ci vivrei.
Daniele ERMES Galassi
Zaino in spalla, mani sul volante, casco in testa: vale tutto. Andale!