Medellin mi ha stupito per un sacco di motivi.
Per dove sorge e come sorge, in mezzo e sopra alle montagne, divisa in quartieri, barrios e comunas da un’orografia capricciosa ma addomesticata da una metro ordinatissima e efficientissima e da un teleferico che non lascia nessuno ai margini, almeno non più.
Mi ha stupito per la gente che ti si mette di fianco curiosa, braccia dietro la schiena, impassibile come se stesse guardando un quadro, giusto per vedere come è fatto uno che viene da fuori. Perché fino all’altro ieri qui a Medellin proprio non ci potevi venire.
Per la Comuna 13, fino a qualche anno fa il posto meno consigliabile della terra, oggi quartiere riqualificato a botte di musica, graffiti, progetti comunitari, spazi di condivisione e finalmente turismo.
Per la palpabile voglia degli abitanti di lasciarsi alle spalle la sofferta era marchiata a sangue dalle Farc di sinistra, dai paramilitari di destra e soprattutto dal cartello di Escobar che non aveva colore politico ma che aveva regalato a Medellin dell’infame primato della città più pericolosa del mondo, con un tasso di omicidi degno di una guerra.
A proposito: agli abitanti di Medellin e ai colombiani in genere non piace per niente parlare di Escobar, è una lettera scarlatta che vorrebbero scrollarsi \ndi dosso per sempre.
Come non piace affatto la serie Narcos di Netflix, considerata storicamente inaccurata e inspiegabilmente incline a rappresentare un patron fin troppo umano. Senza contare l’accento, visto che l’attore che impersona il boss è un brasiliano che tenta di imitare l’accento Paisa: alle loro orecchie una schifezza.
E da quel che ho capito ai più non piace nemmeno che qualcuno stia costruendo un business basato sui Pablo Escobar tour offerti ai turisti in diverse salse.
Secondo la guida del mio Real Medellin Free Walking tour, Escobar divide oggi il pubblico colombiano principalmente in base a un criterio anagrafico.
Gli over 30 che sono cresciuti con l’orrore della guerra contro la polizia e il terrore delle bombe si vergognano di Escobar, tendenzialmente nemmeno lo nominano. Spengono lo switch che hanno in testa e pensano ad altro, al calcio, alla musica, al futuro.
Lui, nato a metà anni ’80, ci dice di avere come primo ricordo i vetri di casa ridotti in frantumi da una bomba piazzata dal cartello di Medellin. La primissima cosa di cui serba memoria è la paura negli occhi della madre.
Gli under 30 non hanno vissuto niente di tutto questo e per loro Escobar è un eroe, un duro, uno che ha saputo imporsi. Lui, quello che all’apice del periodo buio arrivò a mettere bombe negli aerei di linea e a pagare 2000 dollari per ogni poliziotto ucciso. Il che mi ricorda da vicino qualche imberbe nostalgico italiano che invoca il caro Benito non si sa bene perché.
C’è poi un terzo polo, trasversale: metteva le bombe, vero, ma regalava case ai poveri…
Un po’ come la storia dei treni in orario e la bonifica dell’agropontino o Stalin che era quel che era, ma almeno manteneva l’ordine. È sempre il cattivo, o lo stronzo, che fa più presa, c’è poco da fare. Ma solo finché lo vedi alla tv o lo leggi nei libri.
È un bug nel DNA dell’Homo Sapiens, qualcosa che ha poco o nulla a che fare con la geografia. O senza scomodare la biologia, mi sa proprio che tutto il mondo è paese: viaggia che ti riviaggia, alla fine della fiera è quasi sempre questa la verità che ti riporti a casa.
Daniele ERMES Galassi
Zaino in spalla, mani sul volante, casco in testa: vale tutto. Andale!