Colombia 2019 – Giorno #20/21/22 – Gran chiusura tra finti deserti, molestie audio e un goccio di Botero

Il Deserto di Tatacoa è stato l’ultima delle mie tappe prima di tornare a Bogotà e chiudere il giro. Qualcosa che non ti aspetteresti di trovare in Colombia, tanto che pare di stare in Arizona o Utah.

L’ideale sarebbe stato arrivarci il pomeriggio, sollazzarcisi nelle luci del tramonto e poi perdere un po’ di tempo col naso all’insù verso questo cielo che tutti dicono essere perfetto per guardare le stelle sparse per i due emisferi. E infatti questo era il programma che avevo formulato con colpevole ritardo.

Ma decidere all’ultimo da queste parti non è sempre la cosa più saggia: la logistica si è inceppata, i tempi si sono dilatati e mi sono dovuto fermare per una notte nell’infernale Neiva, una grande città che ribolliva come una fornace.

In questa bolla di umidità tropicale sono stato accolto da tipi loschi e traffico tentacolare, quindi l’unica cosa saggia da fare mi è parsa essere blindarmi a doppia mandata dentro una camera super climatizzata, rifiatare e ripartire all’alba con la prima camionetta verso il deserto.

Al Tatacoa è stato tutto facile: deserto rosso, deserto grigio, piscina in mezzo al nulla. Jeep, cavallo, gambe: c’era solo da scegliere. Naturalmente un caldo mostruoso ma stranamente associato a umidità spinta, il che ha tradito la vera natura di questo luogo speciale che pare un deserto, ma è tecnicamente una foresta tropicale semi arida.  Credo che la fregatura stia nell’aggettivo tropicale.

E dopo il Tatacoa un sofferto ritorno a Bogotà in autobus, con una disgraziata colombiana di fianco a me che per sette interminabili ore non ha smesso un solo secondo di parlare al telefono, mandare e ricevere vocali, scorrere clip audio e video. Naturalmente tutto col volume al massimo, inutile ogni tentativo di condurla a un approccio audio più accomodante.

Ma c’è poco da fare, fa parte del gioco, bisogna sempre avere un libro per distrarsi quando c’è il disgraziato al volante e degli auricolari performanti per non impazzire quando l’ambiente sonoro si fa realmente molesto: è questo il kit di sopravvivenza nei mezzi di trasporto in America latina, ormai ce l’ho chiarissimo.

Adesso sono qui a la Candelaria, quartiere vecchio di Bogotà, niente di che da quel che vedo, ma c’è un museo su Botero niente male. E prima del volo di rientro faccio pure in tempo a salutare il Peppe (vedi giorno #13) che naturalmente ha già cablato un incontro galante per il pomeriggio sponsorizzato Tinder Plus.

Che dire, davvero bella la Colombia, davvero varia, davvero umana se guardi nei posti giusti. Anche se forse il mood generale è un po’ troppo tropicale per i miei gusti, perché neanche sulle zona andine ho mai percepito quell’atmosfera da condor e flauti di pan che si può respirare a pari quota in Ecuador, Perù o Bolivia. Se è quello il feeling che cercate allora meglio buttarsi altrove, ma per tutti gli altri la Colombia offre praticamente di tutto.

Un’ultima cosa: direi che il momento di visitarla è esattamente adesso, col paese approdato finalmente a standard di sicurezza accettabili e molte aree non ancora integrate nei circuiti nel turismo di massa. La gente ha voglia di uscire dall’isolamento, è preoccupata per i cugini venezuelani ma è fiduciosa nel futuro e nessuno vi tratterà come wolking dollar. E no, se vi muovete con sale in zucca nessuno vi punterà una rivoltella in faccia.

Animo, avremo perso per ora il Venezuela, ma abbiamo recuperato alla grande la Colombia.

Andale!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Daniele ERMES Galassi

Zaino in spalla, mani sul volante, casco in testa: vale tutto. Andale!

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