Colombia 2019 – Giorno #3/4 – La mano invisibile

Una delle cose che mi piace di più del viaggio in America latina è la relazione uomo-mezzo di trasporto.

Tolte le zone della Patagonia remota, dove trovare un bus e riuscire a salirci non è per niente scontato, dal Messico in giù una delle tecniche più ricorrenti è la presa del bus al volo: ti vedono da distante, ti urlano la destinazione, annuisci, il bus rallenta e tu ti ci fiondi dentro.

Spesso quello che sbraita facendo capolino dalla porta è un compare dell’autista, ti afferra a due mani lo zainone e lo lancia sul tetto, tanto non casca, mentre tu te ne entri dispensando buenos dias ai quattro venti.

Altre volte quello che ti urla addosso la destinazione è il venditore che presidia il terminal de trasporte, che ti squadra con raro occhio clinico e ti legge in faccia dove vuoi andare, ti ghermisce come un rapace e praticamente ti lancia in un altro bus, pulmino o colectivo magicamente già in partenza.

Ogni mezzo ha la sua selezione musicale che nelle tratte minori si mescola al frastuono del motore, perché il portellone che lo chiudi a fare? Bisognerà pur climatizzare in qualche modo, e poi con la porta aperta si urla meglio la destinazione del caso:

Barichara, Barichara, Baricharaaaa!!!

É facile, appagante e pure divertente. Si ha la sensazione di essere in una giostra, fluida come poche altre cose. Davvero, non ci si sente mai persi quando si è da queste parti, c’è quasi sempre un omino che pronuncia qualcosa che fatalmente è proprio il nome del posto in cui vuoi andare e un mezzo col motore acceso che pare aspetti giusto te.

Ormai ipotizzo una regia occulta, una mano invisibile che ti guida benevola che manco Adam Smith nei suoi deliri più sfrenatamente liberisti.

Benevola fino a quando non ti capita il kamikaze al volante. Tipo quello della mia tratta Tunja-San Gil: sequestrato da una efficientissima signorina colombiana appena sceso da un bus, mi sono ritrovato su un piccolo van lanciato a missile per cinque interminabili ore di sorpassi impossibili, inchiodate, accelerazioni e fischi di gomme su curve a gomito con borse e zaini che volavano di qua e di là che manco in assenza di gravità.

Qui in Colombia dentro gli autobus c’è una targhetta con scritto:

‘Come guido? Fammelo sapere al numero xxx’.

Il più delle volte la risposta da dare sarebbe ‘guidi a cazzo di cane’ e non nego che in certi casi conviene non prestare troppa attenzione a come si srotola la strada e tapparsi le orecchie con le cuffiette per non sentire gli acuti degli pneumatici.

Ma inanellare tre-quattro connessioni col sistema dell’autobus al volo ti fa veramente sentire un cagnaccio randagio, di quelli che finché c’è strada c’è speranza, e la tua giornata ha sempre e comunque un senso.

E qui di strada da fare ce n’è per una vita intera. É che ogni tanto, con certi piloti ai comandi, è meglio non guardarla. Portatevi un libro.

Daniele ERMES Galassi

Zaino in spalla, mani sul volante, casco in testa: vale tutto. Andale!

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