Sveglia alle 6, dopo un’ora e mezzo di macchina su strade sterrate l’autista ci scarica a Kyzart all’imbocco del trail. Partiamo carichi come muli sotto a un sole ancora basso ma che si preannuncia spietato.
Obiettivo della giornata: raggiungere il primo campo a quota 2600 e dormire in yurta (evitando se possibile l’assideramento).
Il manipolo italo-crucco-norvegese va alla grande: tira con gran bel passo, filtra acqua dal fiume, raggira ponti crollati.
Va tutto liscio fino a quando non deve azzeccare il suo campo. Il colpo d’occhio ne cattura diversi ma gli spazi sono così estesi che tra uno e l’altro corrono anche due chilometri. E fatteli un po’ due chilometri sotto al sole che trapana, con l’acqua ormai finita, le gambe lesse, col rischio che se sbagli devi poi rifarteli in un’altra direzione.
E infatti sbagliamo, torniamo indietro, risbagliamo e alla fine la moglie di un pastore ci dà l’imbeccata giusta: ma abbiamo messo in saccoccia 5/6 km in più dei necessari e arriviamo a destinazione abbastanza provati dopo 8 ore abbondanti di cammino.
Il campo gestito dalla famiglia nomade xxx (nome di fantasia) è allestito nella Kilemche Valley, a due passi da un fiume gelido che chiacchiera sullo sfondo. Cavalli e bestie varie scorrazzano liberi, la luna fa capolino da dietro le colline mentre il cielo si tinge di lilla.
Il cesso da campo è lì: una gelida fossa nel terreno, che ammicca sorniona: ‘tanto passerete da qui’.
All’interno della yurta adibita ai pasti è la solita babele: si sente parlare in inglese, in tedesco, in francese, persino in cinese. Siamo pure troppi, ma dopo cena rimaniamo in pochi a ciarlare di viaggi, e di riflesso di scelte di vita.
Sono tutti in anno sabbatico o in ‘pausa di riflessione dal lavoro’. Lucas, tedesco, sostiene che il sabbatico è fondamentale, ma è importante scegliere il momento giusto: va preso quando si vive una crisi. E lui progetta con disciplina teutonica di entrare in crisi ogni due anni. E poco conta che la sua azienda offra a tutti i dipendenti due mesi di break ogni anno, da agosto a ottobre: lui si è licenziato lo stesso perché dice che una crisi che si rispetti richiede più di due mesi.
Anche le due parigine sulla trentina hanno silurato il lavoro, anche loro infognate nella propria crisi che provano a spiegarmi con un velo di afflizione: c’è poco da spiegare, le rassicuro.
Discorsi interessantissimi, per carità, ma la mia attenzione adesso è dirottata altrove, deviata da una forza oscura e magnetica: è il cesso da campo. Da qui alle prossime 8 ore mi avrà per ben tre volte. Tutto un altro tipo di crisi.
Daniele ERMES Galassi
Zaino in spalla, mani sul volante, casco in testa: vale tutto. Andale!