Quindici giorni fa non sapevo manco scriverlo. A pronunciarlo ancora ogni tanto mi sbaglio. Dove sta – più o meno – lo sapevo, visto che avevo iniziato a leggere da un po’ qualcosa sul confinante Uzbekistan. Che però non mi attraeva fino in fondo: un po’ troppe città, un po’ troppa architettura, soprattutto un po’ troppo pianeggiante.
Avevo voglia di montagne, quelle vere, e allora eccolo lì: il Kyrgyzstan. In italiano Kirghizistan.
Qui comanda la natura, che per me vuol dire essenzialmente muovermi su e giù per il paese per fare un po’ di sano trekking: siamo ai vertici tipo Nepal o Patagonia, ma senza le orde di turisti del Nepal e della Patagonia. E senza i relativi costi ormai stellari. Tutta roba che comunque non credo tarderà ad arrivare anche in questo angoletto di Asia Centrale sulla Via della Seta.
Ma adesso che dopo 20 ore di viaggio-travaglio sono nella capitale Bishkenk, ho più dubbi che certezze. Mentre cammino tra i palazzoni post sovietici immerso in un silenzio scandinavo, disorientato dall’imperscrutabile cirillico e circondato da monumenti che evocano una qualche vittoria di qualcuno su qualcun’altro, mi arrovello tra questioni meramente pratiche rese più viscose dal jet lag. Tipo:
– Dove vado domani? Come ci arrivo?
– Quel tipo che mi voleva dare un pugno per rubarmi i soldi sarà ancora lì quando stasera tornerò verso la mia baracca?
– Perché scelgo baracche discutibili in posizioni ancora più discutibili?
– La caviglia fratturata a gennaio reggerà a un trekking di 3 giorni consecutivi sopra i 3000?
– Quel delizioso fagottino di carne di manzo preso al mercato mi farà venire la sciolta?
Sono sicuro che presto, massimo un paio d’ore, arriverà almeno qualche risposta.
Daniele ERMES Galassi
Zaino in spalla, mani sul volante, casco in testa: vale tutto. Andale!