Per me che sono un patito dei panorami desertici, questa è una delle giornate più belle. Siamo nella regione di confine tra Upper e Lower Mustang, un’area dominata dalla cultura tibetana, completamente diversa da quanto visto dall’altro lato del passo Thorong La.
Sembrava di no, ma invece il duo sardo mi accompagna anche oggi ammaliato dalle mie promesse di oasi e libagioni a base di yak. Il programma prevede trekking fino Kagbeni, passando per Jhong. Nomi che non dicono nulla a chi non ha studiato la zona, ma che disegnano un percorso magnifico tra paesaggi dominati dall’ocra che mi hanno ricordato alcune zone del Kirghizistan.
Dopo circa 3 ore di cammino senza incontrare anima viva eccoci lì che ammiriamo Kagbeni dall’alto, cinta di un verde inaspettato. ‘Ahhh ma è un’oasi!’, commentiamo ispirati, salvo poi accorgerci (circa 20 minuti dopo) che quella non era Kagbeni ma Tiri, l’ultimo villaggio visitabile senza il permesso costosissimo che serve per entrare nell’Upper Mustang.
Kagbeni è dall’altro lato del fiume e infilandosi tra le sue viuzze si ha l’impressione di essere tornati indietro di un millennio buono. Tra terremoti, frane e inondazioni purtroppo il villaggio non è al suo apice architettonico e alcune aree sono in piena ricostruzione, ma gli spaccati di vita sono più che mai genuini. Pastori che armeggiano col bestiame, monaci tibetani intenti a giocare nel tempio, donne immerse in faccende domestiche. Un altro mondo davvero.
Ma parliamoci chiaro, adesso a noi interessa sfondarci allo Yac Donald’s, il ristorante che ti riempie la pancia di pietanze a base di Yak mentre infrange uno dei più solidi copyright della storia del capitalismo. Hanno pure un menù che si chiama Happy Meal, e anche il logo non si fa troppo scrupoli:
Il servizio non è dei più fulminei, ma il mio sizzling yak su piastra bollente si fa perdonare assolutamente tutto.
A pancia piena saltiamo su una jeep (organizzata dallo stesso ristorante) alla volta di Marpha, dove mi affibbiano un loculo di 2.5 x 1.5 mt prontamente ribattezzato ‘Suite Rebibbia’.
Marpha è davvero una bomboniera come tutti la descrivono, molto piu pettinata di Kagbeni, e oggi deve cadere una delle tante feste nepalesi perché le vie straripano di autoctoni in costume tradizionale, tutti intenti a farsi selfie da pubblicare chissà dove. Ci sono meleti ovunque, non a caso caso la mela è il simbolo di questo villaggio dove tutto è costruito con mattoni inaspettatamente bianchi. Dal bellissimo Gompa, parecchie scale più in alto, si dominano le vie brulicanti di Nepali holyday time, mentre non possiamo fare a meno di notare come qui, a circa 2500 metri, l’aria abbia finalmente smesso di tagliarti in due nonappena il sole si nasconde dietro le montagne. E che montagne.
Il mio trekking finisce qui, a Marpha, e sono intimamente soddisfatto. Le gambe hanno retto benissimo, la schiena pure, l’altitudine è stata ammnistrata con criterio e non ho alcun tpo di rogna fisica. Ho dormito bene, addomesticando bene le nottate gelide nei miei tuguri, ho mangiato decentemente senza prendermi sciolte o infezioni allo stomaco e le mie scelte su vestiario/packing si sono rivelate azzeccate. Di cose che potevano andare storte ce ne erano tante, tantissime, ma la fase trekking la archivio con un pollicione svettante.
Adesso c’è un’altra fase, diversa, ma non meno delicata: prevede di arrivare prima Pokhara e poi da lì a Kathmandu, con mezzi e tempi non ancora del tutto chiari. So solo che sarà lunghissima, travagliata e molto sul filo del rasoio, perchè il mio volo di ritorno è tra circa 60 ore. Inizio domani con un bus locale che promette (o meglio ipotizza) di scaricarmi a Pokhara in 8-10 ore tramite una delle strade più brutte (e purtroppo pericolose) del Nepal.
Poi devo decidere se starmene un giorno a ricaricarmi a Pokhara e rischiarmi poi un bus notturno, oppure ripartire subito per la capitale e vegetare un giorno lì. Ci penserò. Sono sicuro che la notte nella suite Rebibbia porterà consiglio.
Daniele ERMES Galassi
Zaino in spalla, mani sul volante, casco in testa: vale tutto. Andale!