Povoa de Varzim: sono le 19, ho appena finito una tappa che ha coperto la distanza astronomica di 42 km (contro i 33 preventivati), mi tolgo a fatica il calzino sinistro cercando di ignorare i cigolii delle mie anche e trovo questo:

Come è potuto succedere? Cimici? Zecche? Ragni? Ma poi, solo lì?
Rewind.
Porto, ore 7 antimeridiane: già in strada, con le natas comprate ieri sera nello stomaco e il tremendo caffè dell’ostello in mano. Il piano è disarmante nella sua semplicità: devo solo seguire il fiume e poi il mare, limitando bottoni e accolli. E che ci vuole.
Facile la prima parte, impossibile a quanto pare la seconda. Tempo dieci minuti scarsi ecco Victoria, tedesca trentacinquenne di Dusseldorf che per inesperienza si è portata dietro mezza casa. Ha sulle spalle una zavorra che sfonda di ignoranza i 10 kg. Esterno dubbi, ma con tatto mediterraneo. Victoria è mezza alemanna, mezza greca.
Altri cinque minuti e arriva Julia, altra tedesca di appena 21 anni, ma di Colonia. Anche lei ha uno zaino senza senso, ma dice che ci ha già fatto il cammino francese quindi si dice sicura che andrà tutto bene. Qui non esterno dubbi perché è il modello teutonico di super-woman che è sicura di aver calcolato tutto e bene, ma il mio pensiero non cambia: hai cannato, Julia. Julia è mezza crucca, mezza spagnola.
Un minuto di orologio, ecco Ava, 25 anni di Santa Cruz. Almeno lei ha uno zaino minimale come il mio. Sfoggia denti così bianchi che solo in California. Ava è mezza americana, mezza messicana.
Ora oltre che vecchio adesso mi sento pure provinciale in mezzo a tutti questi intrecci internazionali di sangue.
Ah, lo dico subito, il personaggio del giorno non è nè tedesco, nè americano, nè greco, nè messicano e nemmeno spagnolo, ma è lituano. Inarrivabile. Poi comunque ci arrivo.
Si prosegue fino al mare, poi si imboccano delle passerelle. Il panorama non è irresistibile, diciamolo. Se da una parte hai sempre l’oceano che borbotta alla tua sinistra, dall’altra ti ritrovi spesso marcate tracce di antropizzazione che tradiscono la vicinanza con la periferia di Porto. Tipo una raffineria di petrolio o i recinti di una zona industriale. Insomma, ho visto sicuramente di meglio.
Ma si sta bene, è come passeggiata sul lungomare della domenica, solo infinitamente più lunga.



Il personaggio della giornata rasenta l’archetipo dell’epicità. Eva, sulla trentina, lituana. Tipicissima bellezza made in repubbliche baltiche. La vedi lontano un miglio per le treccione rosa posticce alla Predator, ma soprattutto perché è li che spinge un passeggino.
Sissignore, sta facendo il cammino da sola con un passeggino, e dentro c’è sua figlia che avrà un anno. Chiedo, lo farà tutto? Si, certo. In quanto? Boh, che ne sa, dipende dalla figlia.
Se c’è una giustizia dell’uomo in terra, Eva merita una statua col suo passeggino forgiata nell’oro della Mesopotamia. Qui, in scala 1:10, a troneggiare lungo queste passerelle che dopo 20 km iniziano anche a rompermi un po’ i coglioni.

Arriviamo a Vila do Conde dopo 33 km, Victoria, forte della proverbiale capacità reddituale tedesca, ha già prenotato la sua camera privata in guesthouse e ci saluta. Io e le altre due spiantate andiamo a barboneggiare all’ostello del pellegrino, ma è pieno. Ne cerchiamo un altro ma è pieno. La faccio breve: non esistono posti letto disponibili a Vila di Conde per stanotte.
Dopo mille consultazioni e telefonate, durante le quali la wonder-woman teutonica inizia a scricchiolare emotivamente (e io un po’ gongolo), troviamo una tripla in un albergo di Povoa de Varzim, che però è 6 km più avanti.
Morale: 33.5 + 2 + 6 = 41.5 km. Una maratona.
E torniamo ora alla mia caviglia, nel comfort fuori programma (e fuori budget) dell’hotel di Povoa. Come è potuto succedere? Cimici? Ragni? Zecche?
Ma che ne so, io sono dottore in economia e commercio. Ma se avete suggerimenti, let me know.
Daniele ERMES Galassi
Zaino in spalla, mani sul volante, casco in testa: vale tutto. Andale!