Il 4×4 viene a prelevarci alle 5.40: ci attendono due ore di guida fuoristrada come non avevo mai pensato potesse esistere.
La strada che porta al secondo ponte della Karakol valley (partiremo da lì per arrivare all’Ala Kul e li torneremo dopo 9 ore stimate) semplicemente non è una strada. É ora una pietraia aguzza e sconnessissima, ora un ammasso informe di terra con canaloni stile trincea Grande Guerra, ora un lago da guadare.
Sobbalziamo talmente tanto e per tanto tempo che quando arriviamo a questo maledetto secondo ponte i miei organi li sento come rimescolati: non mi stupirei se al prossimo controllo mi trovassero la prostata al posto di un polmone.

Ma io lo so che volete sapere dei due scappati casa, Jackson e Adam (vedi puntata precedente). Leviamoci subito almeno un dente e diciamo che Jackson non avrà le scarpe, ma ha fiato e gambe. Si arrampica su queste pazzesche pendenze senza dare segni di cedimento e anche quando il terreno si fa tecnico e in pratica il trekking diventa una scalata lui c’è, con tutto l’ardore di uno delle Rocky Mountains.


Adam invece è persino peggio del previsto. Non solo fatica che già dopo manco un’ora comincia a dire che si fermerà con ogni probabilità prima del lago. Adam fa cose strane: non risponde o risponde a mezza bocca, non ti guarda o ti guarda torvo, chiede che non gli vengano fatte domande personali.
Poi comincia con le cose davvero strane: si spalma le mani di una crema scurissima e si infila dei calzini di cotone come fossero dei guanti. Ha avuto dei problemi alla pelle, dice.
Chiedo se vuole una protezione totale, rifiuta l’offerta con un impercettibile cenno del capo senza emettere un fiato. Piuttosto però si incappuccia e si mette una mascherina: il risultato è che sembra di fare trekking con Michael Jackson preso su Wish.

Quando gli parli non risponde, si perde a fotografare da vicino rocce e pezzi di terra, sembra totalmente sconnesso, più del terreno sul quale scivola di continuo.

Arrivare al lago (3700 metri) è davvero impegnativo, ma alla fine ci arriva anche lui, anche se con una mezz’oretta di scarto. Siamo solo noi e qualche strano uccello che sghignazza, è un momento di rara armonia. Naturalmente Adam si smarrisce in qualche anfratto a fotografare non si sa bene cosa, io e Jackson ci rilassiamo gustandoci il sole che scalda l’aria sottile.


La pendenza è tale che il ritorno Adam se lo fa quasi tutto col culo, cadendo ogni cinquanta metri.
Dopo nove ore esatte siamo di nuovo al punto di partenza, Adam arriverà con calma un po’ più tardi e con la suola delle sue scarpe da burraco bucata. Adesso ci sono altre due ore di rimescolamento organi e per le 19 dovremmo di nuovo in ostello. Ci arriviamo, io e Jackson scendiamo dal 4×4: Adam si e no che ci saluta.
Sono circa vent’anni che viaggio da solo incontrando sempre gente nuova, di ogni paese ed età, ma non ricordo di aver mai desiderato di levarmi di torno qualcuno come l’ho desiderato con questo scoppiato ungherese. Macchinale, gelido, alieno a ogni moto empatico. E con un pessimo gusto in fatto di vestiario.
Una delle poche volte in cui si è rivolto a me, sul finire, è stato per chiedere se avessi un blog (in modo da poterci tenere in qualche modo in contatto anche solo per scambiarci le foto, presumo).
Un blog? Io? Per carità, quella è roba per chi non ha un cazzo da fare.
Daniele ERMES Galassi
Zaino in spalla, mani sul volante, casco in testa: vale tutto. Andale!