Nepal 2024 – Annapurna circuit giorno #1 – Da Ngadi a Jagat: risaie, ponti sospesi, guide inutili e mostri alati

Sveglia alle 6.50, colazione all’inglese e sono subito sulle montagne russe. L’autobus per Ngadi sobbalza come quel Tagadà che una trentina d’anni fa mi costò quattro punti in faccia.

Un’ora buona per fare qualcosa tipo 12 km, con una sosta al controllo permessi per me è un paio di stop random dove sono saliti un tipo con tre bombole del gas gigantesche e un vecchietto con l’immancabile sacca di mangimi per qualche bestia.

A Ngadi finisce la strada, comincia il mio AC (Annapurna circuit). Fa un caldo bestia e sono solo, sento solo il roboare del fiume e il casino infernale di grilli e cicale.

Passo campi terrazzati, risaie, villaggi piccolissimi e coloratissimi ognuno con almeno un paio di lodge per trekker, che però non passano più come prima. Effetti collaterali della strada, come spiegavo ieri, che corre polverosa sull’altra sponda.

Nepal 2024 - Annapurna circuit giorno #1 - Da Ngadi a Jagat: risaie, ponti sospesi, guide inutili e mostri alati
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Sul lato opposto della valle cascate di varia portata si tuffano nel Marsyangdi che ruggisce sotto. Fa una certa impressione quando ci passi sopra la prima volta usando quei ponti sospesi che ondeggiano al vento e cigolano a ogni passo, ma non c’è alternativa. A me comunque i ponti tibetani piacciono un casino.

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Bahundanda e Ghermu sono gioielletti che sorgono in posizioni privilegiate. A Bahudanda compro da una vecchietta la banana più disgustosa della mia vita, dopo tre passi la lancio a una capra, ma a Ghermu mi rifaccio coi primi momo (ravioli al vapore). Deliziosi, solo durano troppo poco.

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Trekker incontrati fino a prima di Ghermu: ZERO. Qui trovo una coppia di professori delle superiori di Berlino in aspettativa per un anno, alle prese con il loro giro del mondo. Budget stimato: 70k in due. Hanno assoldato per 25 usd/giorno una guida dallo sguardo perso che non sa niente del percorso, non parla inglese e non ha manco le scarpe adatte. Se ne devono liberare al più presto, suggerisco.

C’è pure una neozelandese sulla cinquantina che si è licenziata e viaggia da sola da 7 mesi: scala, cammina, fa cose e vede gente. Ha aspettato 9 giorni che il suo bagaglio aereo pieno di attrezzatura da scalata arrivasse a Kathmandu, prima di battezzarlo perso per sempre. Ora ha solo uno zaino da 50 litri comprato a Thamel che sembra ben fatto ma – lei dice – quando lo porti ti rendi conto quanto fa schifo. Forse devi solo abituartici, mento spudoratamente sbranando i momo al pollo.

Proseguo verso Syange su ponte sospeso sul fiume, mi butto per una deviazione su un altro ponte sospeso per evitare di camminare sulla strada e dopo circa 3 km e una salita letale per il bosco sono di nuovo sulla strada che mi porta a Jagat, altro villaggio arroccato in posizione strepitosa sulla gola. Anche Jagat è stato martoriato a livello di afflussi dalla costruzione della strada, e per appiopparmi una stanza fanno a gara. Dormo gratis, se mangio lì.

Alla fine dopo aver scartato un paio di guest house dal profilo igienico dubbio, mi sistemo al Mont Blanc dove ritrovo tutti: i tedeschi, la neozelandese e la spagnola con l’iracheno di cui mi sono dimenticato di parlare prima.

Giornata faticosa? Sì, 16 km in salita sotto un sole martellante con 8 kg di zaino + acqua sono faticosi, almeno per me che sono in forma ragionevole, ma non sono certo un atleta. A proposito: 40 litri x 8 kg x 17 giorni è un po’ da guinness, me lo concederete dai. (Vero che per il cammino di Santiago portoghese di maggio avevo 25 Lt x 4.5 kg x 13 giorni, ma quello era uno zuccherino, non vi si arrampicava mica sopra i 5000 metri).

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Mi concedo una birra (che costa più di un pasto) e mi sfondo di spring roll al pollo mentre i tedeschi mi raccontano di quanto sia sempre più inutile e fastidiosa la loro guida. Dovete liberarvene, ve l’ho detto.

La notte combatto con degli insetti alati grossi come vespe che entrano dai pertugi degli infissi, ne ammazzo almeno venti a colpi di infradito. A terra è un cimitero, le pareti e il soffitto – un’ora prima bianchi – adesso sono arricchiti da un disordinato motivo a pois.

La mattina li ritrovo stecchiti a decine fuori del mio uscio. Mistero. Chiedo al titolare della guesthouse che mi rassicura in due modi: 1) non pungono e non mordono 2) non serve ammazzarli, si suicidano abbrustolendosi sulle luci del corridoio.

Faccio notare che però di notte ti assalgono mentre sei asserragliato in camera, ma lui con il suo sorriso serafico – forse da buddista, forse da hindú o più probabilmente da imbonitore del settore turismo – mi blandisce ripetendo in modalità mantra il punto 1).

Inutile discuterne, mi rischio un espresso macchiato caldo (che si rivela incredibilmente credibile) e mi incammino verso Dharapani, altri 16 km più su.

Daniele ERMES Galassi

Zaino in spalla, mani sul volante, casco in testa: vale tutto. Andale!

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