Tutti si svegliano alle 4 per vedere l’alba al Tilicho lake, che coi 4950 metri sul livello del mare viene venduto come il lago più alto del mondo (pura fantasia).
Sarà il freddo artico (l’acqua fuori si congela nei secchi), sarà che sono più tipo da tramonto, io non ci penso nemmeno e faccio colazione alle 6.30 canoniche nella gelida dining hall del New Moon Lake.
La salita è durissima, sono 800 metri di dislivello in una manciata di chilometri e il tutto in alta quota. E poi naturalmente c’è da tornare giù. Conto di fare tutto in 5/6 ore con una sosta di un’ora ai quasi 5000 del lago, cosa che dovrebbe senz’altro aiutare in termini di acclimatamento in vista del passo Thorong La che mi aspetta nei prossimi giorni.
Roser viene con me, ma ha qualcosa a un occhio: prurito, gonfiore, per ora lo battezza come niente di che.
Saliamo al lago mentre quasi tutti scendono (la partenza intelligente funziona pure in alta montagna), il panorama è grandioso. A circa metà percorso il sentiero si fa davvero duro, ci arrampichiamo come capre fino a quando non comincia a spianare. Ed eccolo lì: il Tilicho lake. E siamo in tre in tutto.
Cielo sgombro, acqua cobalto, un po’ di neve sui crinali: una cosa così non si vede tutti i giorni. Confesso che ho visto laghi forse più spettacolari in Patagonia, Perú, Kirghizistan, Usa e Canada ma l’esperienza complessiva è assolutamente memorabile. Arrivarci è davvero un viaggio e goderselo in esclusiva è un indiscutibile privilegio.
Tantoché io me ne sto ancora un po’ in solitudine al cospetto di questo immenso specchio d’acqua circondato da picchi oltre i 7000, mentre Roser inizia la discesa.
A metà la ritrovo e le notizie non sono buone: l’occhio peggiora, adesso suppura roba giallastra. Male, malissimo, si fionda al centro medico al Base Camp dove c’è anche un nepalese intubato al letto per il mal di montagna.
Oh my God!
Esclama la giovanissima dottoressa quando vede la faccenda: blatera di virus, di batteri e alla fine prescrive antibiotico per congiuntivite acuta e immediato trasferimento verso l’ospedale di Manang o Chame. Fine dell’ascesa per la povera Roser, che la mattina successiva sta ancora peggio: quella cosa si è estesa anche all’altro occhio.
Torniamo verso Shree Kharka (ancora scree slopes ma al contrario) dove c’è il solito bivio (vedi puntata precedente): io vado verso Yak Kharka per continuare il circuito, Roser punta dritto verso la civiltà.
Speriamo riesca a farsi curare e a riprendere il cammino, il tempo non le manca e la tempra neppure (62 anni ma se la cava benone, sarà che è già in pensione e vive ai caraibi tutto l’anno).
Per Yak Kharka sono 4 ore di saliscendi piuttosto impegnativo, cammino quasi sempre solo fino a quando non incontro il solito gruppo molesto di maledetti israeliani, li supero a grandi falcate lasciandoli indietro ad ascoltare le loro casse bluetooth del cazzo (non è antisemitismo, è antistronzagine).
Arrivo a Yak Kharka straziato da una fame atavica e durante una sessione di doccia calda quanto improbabile (in faccia ai clienti del ristorante) conosco Amedeo e Antonio, due sassaresi con cui lego subito. Basta poco e l’assemblea delibera all’unanimità: anche se li avevo scambiati per pugliesi – ferendo con ogni probabilità il loro proverbiale orgoglio sardo – uniremo le forze per il Thorong La.
Delineata la strategia per i prossimi tre giorni, adesso è finalmente il tempo per il mio primo, luridissimo yak burger.
Daniele ERMES Galassi
Zaino in spalla, mani sul volante, casco in testa: vale tutto. Andale!